
Il 25 luglio l’Italia non ha avuto occhi e orecchie per altro: è morto Sergio Marchionne, storico amministratore delegato di Fca, presidente di Ferrari. Si è spento a 66 anni, a Zurigo, nella clinica dove era ricoverato da fine giugno. E potremmo scrivere di tutto su di lui in questo articolo, ma il web è già saturo di ricostruzioni della sua vita da grande imprenditore. E non solo, perché su Sergio Marchionne si è detto anche altro, e di positivo qui c’era ben poco. Già dai giorni precedenti alla sua morte, testate online e cartacee scrivevano dell’ad che, piaccia o meno per i modi, ha salvato la Fiat dal collasso. E si leggevano notizie di ogni genere, alcune che lo elogiavano e altre con accuse pesanti nei confronti del manager. In ogni caso se ne parlava come se fosse già scomparso, nonostante la prognosi fosse riservata e si sapesse ben poco sulle sue condizioni di salute. Così, se da una parte chi ne esaltava le doti veniva etichettato come servo, dall’altra chi lo criticava veniva subito accusato di mancanza di umanità. E il giornalismo ha così perso la via, per qualche giorno, iniziando subito ad elogiare o demonizzare Marchionne mentre era ancora sul letto di morte, noncurante di famigliari e amici che, nel mondo pervaso dal web, potevano leggere in qualunque istante. Che si parli di un personaggio pubblico è normale, ma i cronisti avrebbero potuto aspettare qualche giorno per fare il loro lavoro, che già troppo spesso viene condannato per mancanza di tatto. Il problema non è stato parlarne, ma farlo nel momento sbagliato. Così facendo hanno dato l’assist per alimentare questo pensiero ma, soprattutto, hanno dimenticato che la professione non deve prescindere mai dall’essere umano.
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