Cyborg: era lui il mio supereroe preferito, quando ero piccolo. E nell’universo della DC, tra Superman, Batman e persino Acquaman, Cyborg non era proprio il più “figo” di tutti. Eppure l’idea di un ibrido tra uomo e macchina mi è sempre piaciuto (e ammettetelo, anche a voi). Tralasciando il fatto di quanto Cyborg sia stato poco valorizzato (DC, non ti perdonerò mai per questo), arrivato sulla soglia dei 30 anni, scopro che quell’ibrido tra essere umano e robot esiste già.
Certo, non si parla ancora di impianti bionici capaci di lanciare raggi laser o occhi con dispositivi ad infrarossi – sigh – ma l’uomo ha iniziato a inserire parti di macchina nel suo corpo. Cioè: l’uomo ha iniziato a diventare Cyborg. E lo sta facendo attraverso dei microchip, sottocutanei, delle chiavi capaci di impartire comandi a dispositivi elettronici.
Leggevo su La Stampa che negli Stati Uniti, presso la compagnia del Wisconsin Three Square Market, i dipendenti dell’azienda sono stati “muniti” di questi microchip sottopelle tra il pollice e l’indice e attraverso degli apparecchi elettronici per la lettura di questi minuscoli parti di macchina nel loro corpo, possono comprare snack dai distributori, aprire e chiudere porte e addirittura timbrare il cartellino (nothing more?!?)
Ma c’è chi, proprio a casa nostra, ha anticipato i tempi. Era il 2015 quando un giovane di Latina è entrato a far parte di un progetto sperimentale per farsi impiantare questo microchip sottopelle, sulla mano. Lui, Francesco Iberite, detto Bicco, classe 1992, è stato uno dei primi 1.000 soggetti in tutto il mondo a fare il grande salto. Lui, laureato prima in ingegneria informatica con una tesi sulla diagnosi dello sviluppo dell’Alzheimer nel breve periodo, e ora di nuovo laureando in un progetto ancora top secret (ma si, anche qui c’è a che fare con impianti bionici su esseri umani nel campo medico) è la persona giusta per farmi capire “perché” un essere umano arriva a volersi impiantare un microchip sottopelle.
Premessa: è un ragazzo normalissimo. Via l’idea del nerd o dello scienziato pazzo. Usciamo la sera, andiamo ai concerti, beviamo birra, facciamo battute che fanno ridere solo noi. Però lui ha un microchip sottopelle, e io no. J
Francesco, insieme ad altri 999 colleghi sparsi in tutto il mondo, ha aderito nel 2015 ad un progetto della Dangerous Things di Washington, una campagna di fundraising che ha visto come sostenitori e poi soggetti attivi della ricerca proprio questi mille ingegneri “sognatori”. Dopo essere stato selezionato, gli è stato fatto recapitare il microchip, un oggetto minuscolo, asettico, facilmente rimovibile e che non limita assolutamente la vita del soggetto.
Perché lo ha fatto? «È la base dei ricercatori, nonché della filosofia del biohacking: sporcarsi le mani per sperimentare delle innovazioni tecnologiche, come hanno fatto i pionieri di internet quando il web era un qualcosa di sconosciuto, permettendoci oggi di navigare con i browser o di usare le applicazioni». Insomma, testare su se stessi per raggiungere il risultato.
Attraverso questo microchip, Francesco porta sempre con sé la propria firma digitale e i dati da lui selezionati: può accedere alle proprie piattaforme tecnologiche quali smartphone e pc, ma l’oggetto sottopelle potrebbe anche contenere, se lui lo volesse, le proprie informazioni personali, quali gruppo sanguigno, intolleranze, allergie e così via. Questo è obiettivamente un fatto positivo: se accusasse un malore in strada e i soccorritori avessero a disposizione un lettore di questo microchip, in un batter d’occhio avrebbero tutto il quadro clinico del paziente. Insomma, le potenzialità del mezzo sono pressoché infinite.
Ma poi arriva la fatidica domanda: hai un microchip sottopelle, non potresti essere geolocalizato ogni istante? Assolutamente no. «Questo microchip è una chiave – spiega Francesco – ed è solo il possessore che decide quando attivarla; non può essere utilizzata da terzi e funziona soltanto a distanza ravvicinata con un apposito lettore».
Il chip, praticamente invisibile, è grande 1 centimetro e permette al portatore di passare attraverso metal detector o i fare risonanze magnetiche. «Al momento viene utilizzato per contenere la propria firma digitale e per attestare la propria identità su internet ma può già essere usato per scopi più utili»
Una mini incisione chirurgica che si rimargina in due giorni, sia per l’inserimento che per l’eventuale estrazione del mezzo e il gioco è fatto.
Bene, se tutto continua così, presto potrò diventare anch’io Cyborg.
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